Per l’Ensign il 1980 poteva essere l’anno buono per entrare a far parte, finalmente, delle scuderie di medio livello della F1. Un pilota quarantenne ma più che valido, Clay Regazzoni, ed uno sponsor importante, la Unipart, potevano permettere alla N180 disegnata da Ralph Bellamy di fare bene. Il drammatico incidente di Long Beach con Clay costretto alla sedia a rotelle mandò in frantumi il progetto. Da lì a fine stagione sulla monoposto della squadra si alternarono piloti dalla valigetta più o meno capiente come Jan Lammers, Geoff Lees e Tiff Needell che collezionarono una lista lunga così di mancate qualificazioni.
La storia, all’inizio della stagione 1981, non era molto dissimile. Il proprietario del team Morris “Mo” Nunn (sì, proprio lo stesso tecnico di pista di Alex Zanardi negli anni belli in Cart) sulla N180B, la monoposto dell’anno prima aggiornata, fece salire lo svizzero Marc Surer ed il cileno Eliseo Salazar e per poco non fece debuttare il primo colombiano in F1 che non fu né Roberto Guerrero né, ovviamente, Juan Pablo Montoya. Fu Ricardo Londoño.
Parafrasando il Don Abbondo de “I Promessi Sposi” potremmo chiederci: Londoño, chi era costui? Un personaggio interessante, senza dubbio. Se vieni alla luce a Medellin nel 1949, lo stesso anno di un certo Pablo Escobar, è possibile che la tua vita non sia proprio noiosa… Escobar nasce il 1° dicembre, Ricardo l’8 agosto. Non si sa molto della sua gioventù e dei suoi primi anni nel motorsport, però ottiene numerose vittorie in gare locali, sia in auto che in moto, e di sicuro entra in contatto con Escobar. Nel 1979 si sposta in America dove partecipa alle gare della serie Imsa mentre nel 1980 finisce settimo alla 24 Ore di Daytona su una Porsche Carrera che divide con il connazionale Mauricio De Narvaez e l’americano Alberto Naon. Nel resto della stagione, con una Lola T530-Chevrolet del suo team, il Londoño Bridge (che è il cognome della madre) Racing Team partecipa alla serie CanAm con qualche risultato discreto. I suoi sponsor commercializzano polvere scura, il caffè che la Colombia esporta in tutto il mondo, ed un’altra polvere. Bianca.
Alle fine di quel 1980 affitta da Colin Bennett una Lotus 78 con cui partecipa ad una gara di Formula Aurora (campionato inglese che si correva con monoposto di F1 dismesse) a Silverstone finendo settimo. All’inizio del 1981, con una Bmw M1, è ancora a Daytona prima di tentare il salto in F1. Sa che Mo Nunn e l’Ensign hanno bisogno di soldi e si presenta con la sua valigetta, agevolato dal fatto che nel frattempo quel Colin Bennett che gli aveva affittato la Lotus presentandolo in giro come un “pilota promettente” (che avesse già 31 anni era un dettaglio…) era diventato comproprietario del team.
Il GP del Brasile, dopo tre anni di assenza, torna sul circuito del Jacarepaguà ed i piloti hanno a disposizione una sessione libera di test al mercoledì per prendere confidenza con il tracciato. La Ensign iscrive Londoño e concorda con la Federazione di fare in modo che quella sessione valga anche come test per concedere la superlicenza al colombiano. Una trentina i piloti in pista e Londoño segna il diciottesimo tempo, 1’41”77, a circa quattro secondi da Carlos Reutemann ma a poca distanza da Nelson Piquet, Renè Arnoux o Bruno Giacomelli. Ma l’atteggiamento del colombiano in pista e fuori innervosisce Keke Rosberg, all’epoca pilota della Fittipaldi, che in una curva frena apposta molto prima del dovuto per farsi centrare dalla Ensign di Londoño chiamato “Chucilla”, ovvero coltello per il suo spirito… inquieto. La Fisa prende la palla al balzo per non concedere la superlicenza al sudamericano dato che nel frattempo ha preso informazioni su di lui e, nel frattempo, Bernie Ecclestone, capo della Foca, fa capire – non sappiamo se con stile british o meno – a Mo Nunn che non era proprio il caso di far correre Londoño. Al suo posto sulla Ensign salirà Surer conquistando un bel quarto posto.
Frantumato il sogno di esordire in F1, Ricardo disputa qualche gara in Formula 2 prima di far ritorno negli Stati Uniti per correre nella serie Imsa fino al 1985. Nel 1986 si iscrive alla 24 Ore di Daytona assieme a Diego Montoya, lo zio di Juan Pablo, ma non parte e da allora non sale più su un’auto da corsa.
Londoño torna in Colombia ed inizia a vendere aerei, elicotteri e navi ai “narcos” del suo Paese. Nel 1998 la polizia trova a casa sua qualcosa come 1200 chilogrammi di cocaina ma lo lascia libero e l’anno dopo disputa ancora una corsa in moto. Nel 2000 lo Stato gli confisca le sue proprietà e la sua collezione di auto, per un valore totale di circa dieci milioni di dollari.
Però Londoño resta ancora a piede libero e vive nel suo hotel nella baia di Cispatà, una località turistica, dove il 18 luglio 2009 viene assassinato assieme ad altre dieci persone. Sei uomini, mandati a regolare i conti da un altro signore della droga, aprono il fuoco sul gruppo: l’autopsia stabilirà che nel corpo di Londoño, che poteva essere il primo colombiano in F1, ci sono dodici proiettili, tre dei quali in testa.